lunedì 6 novembre 2017

Indubbiamente dubbio

Il dubbio viene definito dal vocabolario come un aggettivo o un nome indicante incertezza, insicurezza, qualcosa che non è possibile determinare o definire con precisione. Per un ansioso sociale, il dubbio invece è una costanza imprevedibile, uno pterodattilo volante che cala tra capo e collo in un momento imprecisato, lasciando in uno stato di allerta costante, ma del cui arrivo si è così certi che ci si metterebbe la mano sul fuoco, perché il dubbio arriva sempre, come il cinepanettone sotto Natale.
Noi ansiosi infatti siamo persone dubbiose per natura, l'incertezza ci scorre  nelle vene come ad un americano scorre la Coca Cola nelle arterie, e di solito il dubbio si associa alla colpa, alla paura e ad una interminabile sessione di litigi interiori che lascia provati come dopo una partita a beach volley tra le sabbie mobili. Noi ansiosi siamo sempre pronti a metterci in discussione e a fare di ogni più piccolo gesto una questione di stato, tutto allo scopo di sentirci un po' più inetti e rifiutati dalla società. Si sa, la vita va avanti a colpi di inadeguatezza e Nutella. E dato che la metafora dello pterodattilo è di per sé fallace, da quando i paleontologi hanno ammazzato a colpi di scienza i loro sogni di volo e, con loro, le mie similitudini, non resta che trovare una metafora a prova di bomba (e di lettori pignoli), verificata personalmente e quindi intoccabile per definizione. Immaginate quindi il dubbio come un banco di nebbia, che vi piomba addosso mentre state tornando a casa, magari saltellando felici con le trecce al vento e il cesto di vimini che dondola soddisfatto. Un brividino lungo la schiena, un senso di umidità che vi arriccia anche i peli del naso e di colpo il BIANCO. Non so quale angolo abbiamo svoltato, ma ci siamo ritrovati in un tubetto di Vinavil. Ed ora, uscirne sarà una bella impresa perché, fidatevi, camminare dritto davanti a sé non sarà semplice. Il bianco infatti è il momento dell'autoflagellazione, del rimuginio selvaggio, dell'autoaccusa e dell'inevitabile autocondanna. Le cause del dubbio sono diverse e ciascuno ha la sua: chi è affetto da dubbio amletico, chi non ricorda di aver chiuso il gas, chi è indeciso se il dolorino provato sia un attacco di appendicite o un caso acuto di ipocondria, chi si domanda quale strada seguire per evitare l'attacco di panico e chi è in dubbio se mangiare quell'ultima fetta di torta che lo guarda solitaria nel piatto chiedendo solo di raggiungere le sorelle nel grande cerchio della digestione. E poi ci siamo noi. Coloro che temono di aver detto la cosa sbagliata, di non essere stati sufficientemente brillanti o di aver ostentato sapienze risultando presuntuosi, di essere stati poco o troppo gentili, di aver fatto la figura degli stupidi, di essere stati scortesi perché si era a disagio, di aver cicalato troppo o di aver avuto un atteggiamento da gufo, di aver riso in modo troppo sguaiato o, al contrario, di non aver beccato affatto i tempi comici. Insomma, di essere stati inadeguati, scortesi o di essersi ridicolizzati.
E' chiaro perciò che, quando cala il dubbio sulla nostra esistenza, con lei arriva la Santa Inquisizione, pronta a strizzarci i capezzoli e a tirarci lingua e pollici solo per farci confessare le nostre malefatte e mandarci quindi alla gogna accusati di aver mancato l'appuntamento con la selezione naturale (che ci avrebbe immancabilmente scartato). Quando siamo nel bianco, tutti i contorni sbiadiscono in una nuvola di preoccupazione da cui non riusciamo più ad uscire, il dubbio ci entra negli occhi e ci fa gelare il sangue alla domanda "quando avrò sbagliato?". La realtà scompare, sostituita da una psichica marea lattea su cui scorrono i capi d'accusa come i titoli di coda di un brutto film di Federico Moccia. Allora, armati di febbricitante angoscia, rispolveriamo i ricordi e li analizziamo minuto per minuto, alla ricerca di segnali del nostro terribile errore, dell'onta suprema, della macchia indelebile a qualsiasi intervento di candeggina, della causa della nostra rovina definitiva. Come restauratori esperti, facciamo il carbonio 14 alle conversazioni, misuriamo i tempi di risposta, contiamo sull'abaco mentale le interazioni successive al momento dell'enunciato incriminato, facciamo analisi comparate con eventi precedenti, insomma, scandagliamo ogni fiato espirato (da noi, dagli altri, persino dal cane che russava sul tappeto) come cercatori d'oro sui fiumi del Colorado. Naturalmente si tratta di un lavoro inutile dato che, come ci insegna la psicologia, vediamo solo ciò che può confermare le nostre aspettative. E cosa pensate che possa vedere una testa piena di nebbia come se fosse in un vagone fumatori all'epoca del Grande Gatsby? Dolore, sangue e lacrime, naturalmente. E una confessione già scritta e pronta da firmare. Siamo colpevoli, questo è certo. Bisogna solo capire di cosa. Questo è il tratto distintivo del dubbio dell'ansioso sociale: il nostro dubbio è un'incertezza acida come il latte andato a male, è l'insicurezza che, mentre accusa, affila già la mannaia e prepara il nodo scorsoio al cappio. Il dubbio dell'ansioso sociale è già certezza di morte, anche se cerchiamo ancora di combatterla a colpi di razionalità e di logica, con la stessa perseveranza con cui Bunny si ostinava a cucinare per Marzio.
E nel frattempo, mentre la nostra indagine alla "Chi ha incastrato Roger Rabbit" cambia colore ad una bella giornata come se fosse stata toccata da Tristezza, il presente ci sfugge dalle dita, lasciandoci immobili come conigli davanti all'occhio di bue del fanale di un'automobile. Ci perdiamo in noi stessi e, così facendo, ci perdiamo anche il resto. In definitiva quindi il dubbio si rivela più il Nulla della Storia Infinita che una innocua nebbiolina. Ci risucchia, e con noi il nostro tempo, in una realtà di elucubrazioni mentali, di avvitamenti in noi stessi, di attorcigliamenti che ci tolgono le forze, fino a quando siamo intrappolati in una rete di pensieri catastrofisti a cui si associano nuove colpe, nuovi dubbi, nuove incertezze, perché scavare nei ricordi non è mai un'attività priva di pericoli, anzi. Infatti, anche se per miracolo ci ritrovassimo ad avere come avvocato Matt Murdock e quindi riuscissimo a sfangarla, nel rivangare il passato comparirà sicuramente qualcosa per cui siamo colpevoli. Magari abbiamo dimenticato di offrire da bere a qualcuno. O forse abbiamo risposto in modo poco esaustivo. O, peggio, abbiamo usato un tono di voce passibile di fraintendimenti. Quell'incremento di un'ottava alla fine della frase risulta gravida di sospetti, in effetti.  Ma quindi non c'è speranza per noi, poveri sventurati frequentatori di Pianure nebbiose? In realtà, una soluzione c'è: smetterla di venire a patti con la Santa Inquisizione dentro di noi. Tanto perderemo sempre e comunque, quindi l'unica possibilità è cercare la via d'uscita da questo personale Sottosopra in cui ci siamo cacciati. Come ci insegna Stranger Things, è inutile tentare di parlare con il Demogorgone, quello vuole solo papparci con un contorno di patatine novelle. Allora l'unica possibilità è offrire un cordiale gesto dell'ombrello a tutta questa gogna mediatica in cui ci piace annegarci e proseguire dritto per la propria strada. In fondo, finché non c'è condanna, rimarrà sempre il beneficio del dubbio. 
Duille



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Eccomi! Sono una scrittrice in erba, divoratrice di libri, sognatrice professionista e ansiosa sociale multicorazzata. Ho la fissa dei ricordi, la testa fin troppo tra le nuvole, interessi disordinati, un amore impossibile per gli alberi e una passione al limite del ridicolo per le serie tv. Ah, e le presentazioni non sono proprio il mio forte. Si vede?

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